Ho un ufficio, raramente ho una scrivania dedicata a me. Quello che vi voglio lasciare in questo articolo è il perché di questa scelta, cosa abbiamo imparato in ideato sullo Smart Working e come l’abbiamo messo in pratica.
Come siamo arrivati a fare Smart Working
Abbiamo aperto ideato ad inizio 2008. In azienda eravamo in tre, pieni di belle speranze, di entusiasmo e con un ufficio microscopico. Siccome nella divisione dei ruoli a me toccò fare il commerciale/consulente, fin dai primi giorni, gran parte della mia attività lavorativa è stata al di fuori dell’ufficio. Certo, ogni tanto mi capitava di passare qualche giorno in ufficio, ma non era la mancanza di una postazione fissa a fermarmi dallo svolgere le mie attività. C’erano sempre il divanetto in sala relax, la (micro) sala riunioni, qualche altra scrivania lasciata libera o, alla peggio, il bar.
Ad un certo punto, un paio d’anni dopo, cresciamo in numero e di conseguenza decidiamo di trasferirci. Ingrandiamo l’ufficio passando da 70 metri quadri a 250 metri quadri. Anche in questo nuovo ufficio, la scrivania per me non fu una priorità. Come per il precedente ufficio mi trovai a vagare per le varie stanze, non tanto perché non ci fosse spazio, ma quanto perché preferivo favorire la comunicazione a chi aveva bisogno di stare vicino operativamente o per stare io stesso a contatto con più persone possibili.
Questo atteggiamento, non solo mio ma condiviso nell’azienda, ci ha spinto a fare qualche ragionamento in più su quello che è il mondo del Remote Working ed a come lo stavamo affrontando in ideato.
Aggiungo che non siamo una azienda interamente diffusa, cioè senza una sede fisica e su più fusi orari. Ma anzi abbiamo una sede, adesso di quasi 400mq, a Cesena, abbiamo aperto un coworking nelle Marche ed abbiamo diverse postazioni nei coworking sparsi per il territorio italiano. La nostra esigenza è quindi quella di permettere a tutti gli ideatos di lavorare da dove vogliono sapendo che questa scelta non impatterà con la quotidianità del nostro operato.
Non esiste una scienza certa, e così come ideato sta investendo per trovare la sua ricetta, molte altre aziende lo stanno implementando con modalità radicalmente diverse e verticalizzate sulle specifiche esigenze.
Telelavoro
Uno dei primi ragionamenti che abbiamo fatto è stato sul nome. Il Remote Working letteralmente tradotto in italiano è il vecchio, caro e soprattutto normato: telelavoro.
Il telelavoro ti impone di lavorare in un luogo definito e stabile, casa tua normalmente, con la sedia a norma sulla legge sulla sicurezza 81/08 (erede della famosa 626), il tavolo ad una certa altezza, la connessione che deve essere di un certo modo e gli strumenti aziendali che non si possono mischiare con gli strumenti personali con un impianto burocratico da tenere in considerazione non banale. Anche a livello contrattuale bisogna definire cosa e come funziona la prestazione da telelavoratore creando non pochi problemi quando si provano ad affrontare temi di smart working, mobilità fino ad arrivare al lavoro nomade.
Siccome il telelavoro non rappresentava il modo di lavorare che volevamo impostare in azienda, decidemmo di approfondire temi relativi alla produttività personale e alla libertà d’azione.
Smart Working
Ci affacciammo quindi allo smart working. Quanto parliamo di Smart Working non stiamo, implicitamente, dicendo di arredare una stanza del nostro appartamento come ufficio o di spostare le 8 ore lavorative in una nuova sede. Stiamo parlando di un concetto radicalmente diverso di intendere il lavoro.
Lo Smart Working è una pratica che si sta diffondendo sempre di più nelle società che operano nei cosiddetti Knowledge Works, o lavori di ingegno. Cioè tutti quegli ambiti lavorativi (grafica, design, sviluppo software, consulenza) che si basano, prevalentemente, sull’uso del proprio cervello coadiuvato da strumenti digitali e software e che non hanno necessità, se non saltuariamente, di accedere a strumentazioni fisiche vere e proprie (ad esempio plotter per i grafici o stampanti 3d per gli designer) o di doversi incontrare fisicamente.
Provando ad usare la definizione di smart working estrapolata da uno dei gruppi di lavoro di osservatorio.net possiamo affermare che è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.
E’ molto importante mettere in evidenza i temi della restituzione del tempo e della maggiore responsabilizzazione delle persone. Infatti se da una parte l’azienda si sensibilizza per offrire ai propri dipendenti maggiori spazi d’azione per gestirsi al meglio le giornate lavorative dall’altra parte questi ultimi devono prendersi la responsabilità delle scelte che prendono e che non devono, in alcun modo, impattare sulle performance lavorative.
Lo Smart Working si sta naturalmente affermando anche in Italia come un concetto riconosciuto e compreso, sdoganandosi progressivamente da quello di telelavoro. Le implicazioni di questo cambiamento sono enormi e riguardano non solo aziende e persone ma anche le città e gli spazi urbani. Smart Working significa infatti poter lavorare non solo da casa ma anche in altri ambienti come aeroporti, spazi di coworking, bar e sale di attesa nelle stazioni e questo genera delle implicazioni positive sulla mobilità urbana oltre che sull’inquinamento.?—?Osservatorio sullo Smart Working 2015
Agile Working
Ulteriore evoluzione, se così vogliamo definirla, del mondo del lavoro intelligente è l’Agile Working. Da non confondersi con le metodologie agili del mondo dello sviluppo software, ma che pone le sue radici nella flessibilità degli strumenti ed nell’efficienza erogata.
Poiché il lavoro agile è quel processo che porta le persone a definire i processi, le tecnologie, i giusti tempi e luoghi per realizzare determinate attività nei modi più efficienti ed efficaci non si parla solo di restituzione del tempo ma anche di scelta degli strumenti di lavoro in base al contesto lavorativo, a prescindere da quelle che potrebbero essere imposizioni aziendali cadute dall’alto. Con forti ricadute sia di costi di gestione che operativi nel caso in cui le persone abbiano continui context switch da un progetto ad un altro con subset di strumenti, metodologie e processi differenti che portano a rivedere il processo produttivo dell’intera azienda al fine di abbracciare questa modalità di lavoro nel migliore dei modi.
E’ interessante, ed importante, notare come proprio l’Agile Working abbia preso piede sul territorio italiano entrando nel ddl 2233 approvato questo novembre con punti discutibili (forse più nel modo che nel concetto) come l’obbligo di presenziare nella sede dell’azienda con cadenza certa per non rischiare disaffezione verso i propri i colleghi/l’impresa.
Le giuste motivazioni
Ribadendo quanto scritto in precedenza gran parte di queste modalità di lavoro distribuito nascono in ambienti dove non è la co-locazione delle persone a dare forti vantaggi così come non c’è necessità di accedere a strumentazione fisica (o particolarmente costosa).
Quello che più deve essere ricercato è la miglior qualità della vita lavorativa delle persone associata, in maniera indissolubile, ai risultati che vengono portati sul lavoro. E’ un modo di lavorare più orientato ai risultati ottenuti piuttosto che al mero monte ore lavorato.
Il concetto è spostato quindi totalmente sul valore erogato alla nostra azienda. Questo principio è sicuramente molto forte da accettare in un ambiente dominato da contratti che nascono nel mondo industriale del dopoguerra, che, sostanzialmente, non hanno visto reali evoluzioni fino ad oggi e che non riescono a ragionare in termini di Knowledge Working dove è difficile essere produttivo per otto ore di fila senza far staccare il cervello su altri temi o dove molte delle attività richiedono studio ed aggiornamento continuo prima, dopo e durante il loro svolgimento.
Il concetto cardine è che nel nostro mondo lavorativo bisognerebbe puntare al risultato più che alle ore per ottenerlo.
Se viene raggiunto lo stesso risultato in meno tempo, si avrà più tempo da dedicare ad un altro genere di attività lavorative che portano valore non solo all’azienda ma anche all’individuo; come la sperimentazione di pratiche/prodotti innovativi, lo studio per prendere una certificazione e/o per migliorare i processi produttivi.
Se le pratiche di Smart Working ed Agile Working non impongono, per loro natura, la distribuzione del personale di una azienda sul territorio (o su fusi orari differenti), se bisogna affiancarle al Remote Working le cose cambiano un poco. Ecco perché diventa indispensabile individuare i corretti strumenti di lavoro.
I giusti strumenti
Prima di parlare dei giusti strumenti, o gli Unified Collaboration & Communication tool usando un termine consolidato, è importante introdurre un altro concetto, quello dell’approccio Remote First relativo alla scelta degli stessi.
Remote First
Per Remote First si indica il principio secondo il quale un determinato programma, procedura o strumento debba poter prima di tutto funzionare online e poi in co-presenza. Per fare un esempio molto semplice possiamo far rientrare l’email in questa categoria perché è facilmente utilizzabile da qualsiasi device. Ma cosa succede se l’indirizzo di posta elettronica in questione è accessibile solo dietro autenticazione alla rete interna dell’azienda (ad esempio tramite VPN)? Che non potrà più essere considerata pronta all’uso da remoto e quindi dovrà essere declassata tra gli strumenti di comunicazione. Allo stesso modo quando da un team deve essere scelta un’applicazione, il principale criterio sarà quello di permetterne l’uso dal maggior numero di device presenti nell’ecosistema aziendale (smartphone, tablet, computer) al fine che ogni utente abbia almeno un modo per accedervi da remoto.
Diventa quindi prioritario ragionare con il principio di Remote First anche sul modo di comunicare. Ricordandosi che se vengono scambiate informazioni importanti davanti alla macchinetta del caffè, queste non raggiungeranno le persone dislocate sul territorio e che quindi anche il semplice passarsi una informazione al di fuori delle piattaforme individuate può comportare la perdita di conoscenza nell’azienda. Questo può portare, ad esempio, a scenari contro-intuitivi in cui è necessario usare uno strumento di chat anche tra persone co-locate nello stesso ufficio ed a pochi metri (se non centimetri) di distanza.
I principi di Remote First possono portare a soluzioni diametralmente opposte in base all’esigenza dell’azienda. Se da un lato, ad esempio, una azienda può scegliere di virtualizzare tutti i propri sistemi in modo che possano essere utilizzati da un comune browser, dall’altra parte molte startup scelgono di abbandonare il mondo delle applicazioni legacy per optare a piattaforme di collaborazione online come G-Suite, Office 365 o Zoho, o a fornire i propri dipendenti dell’hardware dedicato per svolgere i compiti a loro attribuiti.
CyberSecurity
Un altro tema molto caldo riguardo gli strumenti utili alla collaborazione distribuita è l’aumento dei rischi di diffusione di informazioni riservate. Se questo può essere, parzialmente, prevenuto con una corretta formazione dei dipendenti, criptando i filesystem ed imponendo sistemi di autenticazione a due fattori (2FA) il rischio rimane comunque molto alto e spesso è un vero e proprio freno al processo di trasformazione delle imprese.
I tempi della comunicazione
Quando si parla di lavoro distribuito si deve innanzitutto comprendere che la comunicazione tra le persone di un team può avvenire secondo tre principi (o velocità). La comunicazione in tempo reale, quella asincrona e quella statica, o offline.
Comunicazione in tempo reale
La comunicazione in tempo reale è quella a cui siamo abituati tutti noi fin dalla nascita: abbiamo qualcuno di fronte, chiediamo qualcosa ed otteniamo (si spera) una risposta. Allo stesso modo riunioni, incontri, telefonate rientrano tutte nel principio della comunicazione in tempo reale.
Ma cosa succede se il nostro interlocutore è a centinaia di Km di distanza? E soprattutto se durante la discussione dobbiamo, non solo spiegare a parole, ma aiutarci con immagini, schemi o anche solo scarabocchi sul classico foglio di carta? In questo il team dovrà aver identificato per tempo i corretti strumenti e li dovrà aver messi a disposizione delle persone, formate (per di più) al corretto utilizzo.
Tutti noi sappiamo quanto sia snervante una conference call fatta con gli strumenti sbagliati (dove una connettività inadeguata può rientrare nella casistica), ecco perché darsi delle regole chiare e condivise su come gestire la comunicazione in tempo reale può fare la differenza nel recepire le informazioni principali.
Ad esempio condividere prima di una call (o di un meeting) la scaletta della discussione, far chiudere la riunione con un riassunto scritto e condiviso di quanto emerso e/o stabilito. Ridurre il tempo di questo genere di incontri al minimo indispensabile, spostando poi gli approfondimenti su altri canali che permettano di rispondersi in differita e di allegare materiale a corredo, sono solo alcune delle buone pratiche della comunicazione in tempo reale.
Uno dei concetti cardine di questa velocità di comunicazione è l’empatia. Infatti è più semplice comprendere lo stato d’animo di una persona se ce la abbiamo davanti, e se abbiamo un dubbio, che non sappiamo esprimere bene in maniera scritta, una telefonata (o meglio un incontro) ci permettono di risolverlo molto in fretta.
Comunicazione asincrona
La comunicazione asincrona è quella che necessita di una risposta senza però imporre un vincolo temporale definito. Gli SMS ne sono un esempio lampante, così come anche le email, i sistemi di chat, i sistemi per gestire ticket sono tutti strumenti che fanno della comunicazione asincrona il loro cavallo di battaglia.
La prima cosa da tenere a mente è che essendo, appunto, asincrona non ci si può aspettare una risposta in tempi immediati o certi. Inoltre è importante imparare a non disperdere il discorso su più media contemporaneamente (ie. mail, chat e whatsapp) ed ad aspettare la risposta dei propri interlocutori prima di procedere nel discorso. In caso di necessità di risposta certa (ma anche dell’avvenuta lettura) è importante definire un metodo di lavoro comune; alcune pratiche ad esempio chiedono di compilare sondaggi online, altre di aggiungere un feedback alla comunicazione. Altri strumenti, come ad esempio whatsapp, informano chi ha visto o meno il messaggio. Dare come presupposto che tutti leggeranno l’informazione, senza aver stabilito un protocollo di intesa, non porterà mai buoni risultati.
Gli strumenti di comunicazione asincrona sono i più diffusi e, in questo periodo storico, stanno vivendo un vero e proprio rinascimento grazie anche all’introduzione di sistemi di chat integrate a software di terze parti come Slack o HipChat. Colossi come Google (con Hangout, Allo, ed un ormai defunto G+), Microsoft (con un rivisitato Skype ed il nuovissimo Teams) e Facebook (con Workplaces) si stanno cercando di posizionare sul mercato con soluzioni multipiattaforma e più o meno integrabili con l’esterno.
Sull’uso, e la scelta, di questi strumenti ogni azienda ha, giustamente, creato una propria metodologia. Se ad esempio in Automattic tutto avviene in chat o su uno specifico blog (tutto il processo è illustrato nell’ottimo The year without pants), in BaseCamp (come ci viene spiegato in Remote: Office not required) lo strumento che la fa da padrone è il software che da il nome alla stessa azienda. E’ possibile usare un approccio misto con l’email per le comunicazioni di massa (che non necessitano di feedback) e la chat per quelle dirette, ma non si può, e deve, dire che esista il metodo perfetto. Ogni azienda può solo scegliere da un insieme di buone pratiche che possono essere mappate, o meno, nel proprio processo lavorativo rischiando addirittura di alterarlo.
Un suggerimento sempre attuale è quello di non utilizzare più strumenti per lo stesso scopo. Questo eviterà la creazione di continuo rumore di fondo nella comunicazione di un gruppo di lavoro (ad esempio configurando sistemi di alert che non filtrino solo gli avvisi importanti ma che mostrino tutto quello che succede).
Comunicazione statica (o offline)
L’ultima forma di comunicazione è quella statica, cioè quella che necessita di essere modificata molto poco e che ha il ruolo di mantenere la conoscenza aziendali alla portata di tutti. Questa attività può essere portata avanti in diversi modi; con repository di informazioni destrutturate (ad esempio con file caricato su Dropbox, Google Drive, Microsoft OneDrive, etc) o con l’uso di sistemi di knowledge management più evoluti (un qualsiasi motore di wiki, sharepoint, BaseCamp, etc).
Un altro punto importante è che alcune delle informazioni che appartengono a questo gruppo normalmente devono poter essere accedute anche in caso di mancanza di connettività creando di fatto copie locali, da sincronizzare se modificate, dei documenti aziendali.
Una Knowledge Base non aggiornata o che non permetta di cercare contenuti specifici non ha senso di esistere.
Gestire bene l’architettura delle informazioni, renderle facilmente ricercabili ed aggiornabili è quindi la priorità di chi dovrà mantenere la Knowledge Base.
Push Notification
Un altro strumento a supporto della condivisione delle informazioni in azienda è l’utilizzo di notifiche Push, cioè inviate in autonomia dal sistema ed innescate da un particolare evento (ad esempio la chiusura di un ticket).
Le Push Notification, se ben implementate e filtrate, aiutano a far emergere il non detto dell’operatività giornaliera. Chi ha fatto cosa e quando, se c’è bisogno di un ulteriore intervento o anche se è tempo di festeggiare il completamento di un progetto.
D’altra parte se implementate senza rigore diventano uno strumento di entropia, con centinaia (se non migliaia) di messaggi inutili che nascondono le vere informazioni.
Per molti ma non per tutti
Tralasciando i problemi infrastrutturali, che il nostro paese sta (troppo) lentamente risolvendo, le aziende devono essere consapevoli dei cambiamenti che devono affrontare.
Avere, o lavorare in, una azienda che vuole abbracciare lo Smart Working non è alla portata di tutti.
Da una parte ci sono espliciti vincoli dati dalla tipologia del lavoro, dagli investimenti da fare sia in tecnologia che sugli spazi, che sulla formazione delle persone, dall’altra ci si può scontare con le necessità del singolo individuo: di volere un rapporto diretto con i propri collaboratori, di ridurre la pressione di dover rendere partecipi le persone del proprio operato o anche di preferire un lavoro meno responsabilizzante.
L’HR Smart
Un altro dei temi caldi che si sta discutendo, e che deriva anche dalla bolla tecnologica dell’ultimo decennio, è che c’è una totale disaffezione dei dipendenti per il luogo di lavoro. Nella Silicon Valley (e di riflesso in Inghilterra) la figura del dipendente è sempre più sostituita da quella del contractor, il quale ha tempo di permanenza inferiore all’anno all’interno di una azienda. Questo comporta continui costi di formazione, allineamento del personale e hiring che, non solo rallentano il processo produttivo ma, rischiano di far perdere il know how acquisito su nuovi processi/progetti.
Il lavoro dell’HR si sta sempre più trasformando da ruolo con prevalente valenza amministrativa ad una figura che facilita l’integrazione ed il coinvolgimento delle persone in azienda, identificando i sintomi che potrebbero portare l’abbandono del luogo di lavoro e premiando i comportamenti meritevoli al di fuori del solo contesto operativo (ad esempio mettendo in evidenza e premiando chi aiuta la crescita professionale di un proprio collega o anche semplicemente propone attività comuni).
Il ruolo dei responsabili HR che lavorano in una azienda “Smart” è anche quello di coinvolgere in specifiche attività comuni un singolo team o tutta l’azienda per rafforzare i rapporti interpersonali. Senza scadere nel rafting, o le altre attività di team building così di moda negli anni 90, si parla di attività di co-creazione che possono spaziare dai processi impresa, a nuovi modelli di business e fino ad arrivare al lavorare insieme al miglioramento del welfare aziendale stesso.
Smart Office
Abilitare le persone a lavorare secondo questi principi significa anche offrire loro degli spazi adeguati. Ricordo come Smart Working non sia indissolubilmente legato al Remote Working, pertanto anche i vecchi spazi devono essere progettati al fine di favorire flessibilità e comunicazione tra le persone, possibilmente in un ambiente piacevole (senza però dimenticarsi di garantire una connettività adeguata).
Aziende come Nestlé, Autogrill, Unicredit o American Express stanno radicalmente modificando gli uffici tradizionali introducendo aree di lavoro innovative e spazi consueti ripensati in modo nuovo: anche il ristorante aziendale, il bar e le aree break, infatti, sono concepiti per favorire l’incontro e lo scambio di idee fra colleghi e attrezzate per lavorarvi in gruppo o da soli.
Le Quiet Room o i Phone Boots (vere e proprie riedizioni in chiave moderna delle vecchie cabine telefoniche) diventano uno spazio indispensabile per chi ha l’esigenza di fare call senza disturbare i propri colleghi o per fare micro riunioni che necessitano di una certa privacy.
Evoluzione del processo
Ho ripetuto più volte come non esista una scienza certa, lo Smart Working appartiene a quel ramo delle competenze più vicino alle pratiche emergenti che a quello di pratiche consolidate. Pertanto diventa necessario, se non addirittura obbligatorio, misurare i miglioramenti introdotti di volta in volta e fare continui esperimenti al fine di validarne le ipotesi fatte.
Per concludere
Facciamo quindi un breve riassunto di quanto scritto finora.
- Fare Smart Working non significa fare telelavoro, cioè non c’è un’imposizione fissa di orario, luogo o strumenti ma è un metodo di lavoro dinamico e che si adatta alle esigenze delle persone, responsabilizzandole, ed a raggiungere gli obiettivi aziendali nel più efficace dei modi.
- Potete fare Smart Working anche senza essere una azienda diffusa su 12 fusi orari o senza sede. Così come potete essere Remote ready se nel disegnare i vostri processi e scegliere i vostri strumenti ragionate in ottica di Remore First.
- Non esiste una ricetta sicura per fare una transizione aziendale allo Smart Working, esistono però delle buone pratiche che possono essere ricucite sul proprio modus operandi.
- Come per molte cose, la comunicazione è alla base di tutto. Imparate a capire quale sia la velocità della comunicazione da usare nei vari contesti ed a farlo correttamente e continuamente.
- Fare bene Smart Working significa investire tempo e denaro in tecnologia, spazi, formazione e persone. Pensare di poter far cadere dall’alto regole di comportamento o strumenti senza aver facilitato un processo di crescita professionale dei dipendenti è un approccio naìve e potenzialmente dannoso alla morale aziendale (se non all’intero business).
- Il ruolo dell’HR deve trasformarsi radicalmente e deve lavorare su valori più vicini alla empatia e coinvolgimento delle persone, che alla mera busta paga.
- Se pensate di essere arrivati ad ottenere un buon processo operativo, è ora di rimetterlo in discussione e di fare piccoli esperimenti per migliorarlo ulteriormente.